Una città è composta di uomini: il terremoto miete 86.000 vittime. Il loro respiro cessa alle cinque e venti del 28 dicembre 1908: l’alba più buia per chi rimane ancora in vita.
Ma c’è un mondo che scopre questa tragedia e non tarda a tendere la mano. Sono numerosissime, infatti, le lettere di solidarietà esposte, alcune addirittura provenienti da Richmond Stati Uniti, attraverso le quali si elargivano somme di denaro per fronteggiare l’emergenza, così come diverse sono le foto che ritraggono il re Vittorio Emanuele III o la regina Elena presenti sui luoghi del disastro per portare conforto ai superstiti.
E sono quest’ultimi e le loro miserie confusi nelle macerie della città, a raccontare il dramma di quei primissimi momenti destinati poi a diventare il DNA di Messina. Sono le mani che scavano nella terra, i volti fieri dei soldati giunti per il soccorso, lo sguardo assente di chi ha perso tanto, tutto, a comporre quel puzzle di tessere più o meno sbiadite che fanno ancora oggi da icona all’ immagine di Messina. Come le cartoline dell’epoca che raccontano il terremoto. La televisione non esisteva ed i giornali allora erano corredati da poche fotografie, così il modo più semplice ed efficace per divulgare l’immagine dei danni provocati dal terremoto era la stampa di cartoline. Non solo esse si rivelavano un utile strumento per sensibilizzare l’opinione pubblica, ma anche l’unico mezzo per dare notizie di sé attraverso poche righe scritte sul dorso di questo antico mezzo di comunicazione dei sentimenti. A tale proposito appare significativa una foto che ritrae un ufficio postale improvvisato, sorto proprio per soddisfare questa esigenza.
Nasce quindi lo spirito di sopravvivenza, l’unico modo per vincere il dolore: chi rimane vivo non si scompone, non denuncia la propria tragedia, la seppellisce dentro di sè insieme al simulacro della città. E così i superstiti diventano profughi, emigrando verso le città siciliane più vicine, o si ritrovano costretti a vivere nelle baracche. Due scelte che da allora, non sono così cambiate: se vero è che chi abbandona la nostra città si trasferisce ormai fuori dalla Sicilia e dall’Italia, le baraccopoli a Messina hanno continuato a proliferare anche quando non c'era più un terremoto a giustificarle.